Kintsugi, urushitsugi, gintsugi, yobitsugi...le varianti estetiche che gravitano attorno al restauro della ceramica secondo la tradizione giapponese sono moltissime.

TUTTO E’ COMINCIATO CON…BREVE STORIA DI KINTSU HANDMADE
Ci sono dei momenti, nella vita, dove si arriva a un bivio. Alcune storie finiscono, altre iniziano. Ho compiuto gli studi come restauratrice e ho avuto l’onore di lavorare per i più importanti antiquari milanesi. Il mondo del restauro, però, da qualche anno iniziava a essere in crisi, così pensai che avrei dovuto inventarmi qualcosa di diverso. Avevo precedenti esperienze come restauratrice e doratrice, una grandissima passione per l’Oriente e per il Giappone. Avrei potuto, forse, sfruttare gli strumenti del mio vecchio maestro, che aveva una rinomata bottega di cornici in Brera. Mi aveva lasciato i banconi, gli attrezzi, i suoi preziosi brunitoi e una buona dote di fogli d’oro zecchino.
Mi misi alla ricerca di qualcosa che potesse stimolarmi e digitai su internet: Oro – Giappone- ciotole. Ed ecco che feci una scoperta strabiliante: KINTSUGI, l’arte di riparare con l’oro.
“Kin” oro – “tsugi” ricongiunzione. Le immagini mostravano oggetti di ceramica rotti, incollati, dove era stato messo dell’oro zecchino per evidenziare le crepe.
Questa idea del kintsugi mi tormentava. Ogni volta che mi trovavo in un luogo pubblico, soprattutto in un ristorante giapponese, mi veniva un istinto fortissimo di buttare per terra le ceramiche, a maggior ragione se erano belle e scure! Per non parlare della maniacale abitudine di guardare le crepe dei marciapiedi.
Parlai di questa idea folle a mio marito che, invece di tenermi con i piedi per terra, essendo designer e allievo di Munari fu ancora più entusiasta di me.
In Italia, a quei tempi, era impossibile trovare informazioni su questa tecnica. Su internet se ne parlava molto, certo, ma il kintsugi era sempre utilizzato come metafora per significare che la sofferenza ci rende, in un certo senso, più preziosi. Così partimmo per il Giappone, alla ricerca di qualche informazione su come, nella pratica, si svolgesse il kintsugi.

Nel frattempo, a furia di parlare di kintsugi kintsugi kintsugi, che era un po’ macchinoso da dire e, oltre a tutto, bisognerebbe pronunciare “gi” “ghi”, come si dice in lingua originale, la parola diventò amichevolmente kintsu. La ciotola kintsu, il tavolino kintsu (già perché mi venne pure la pensata di spaccare le lastre di marmo per fare tavolini), tanto che alla fine decidemmo che la nostra ditta si sarebbe chiamata KINTSU. Kintsu handmade, per non confonderla con le mille società che portavano lo stesso nome in Giappone, anche se si occupavano di tutt’altro.
Così il marito disegnò il marchio, ispirandosi proprio all’essenzialità nipponica e circoscrivendo la lettera K in un cerchio nero. In pratica la K sarebbe stata dorata e avrebbe simboleggiato la crepa dorata nella ciotola.
L’idea era di proporre oggetti di altissima qualità, lavorati con oro zecchino, venduti in scatole di lusso.
In quei momenti c’erano alcuni periodi in cui mi assaliva il panico e pensavo: “ Ma chi vuoi che ti dia duecento euro per una ciotola incollata?”. Cercavo subito, allora, di pensare a una frase del Buddha: “Noi siamo ciò che pensiamo. Tutto quello che siamo sorge dai nostri pensieri. I nostri pensieri costruiscono il mondo.” Se c’è una cosa che ho imparato dalla cultura orientale, è che un pensiero positivo generà positività, uno negativo, negatività, si chiama legge di risonanza. Non solo, poiché tutto è un riflesso della nostra mente, tutto può essere cambiato da essa. Bisogna subito accantonare i pensieri negativi ed essere costruttivi. Come diceva Andrea, il mio editore: “Nel lavoro vince chi resiste.”