L’Hanami, letteralmente “guardare i fiori”, in Giappone, è un rito collettivo per cui milioni di persone si spostano in tutto il paese per poter godere appieno della fioritura dei ciliegi.

WABI SABI
Cercando di apprendere a fondo la cultura giapponese, ho capito che definire e tradurre alcuni concetti è pressoché impossibile, anche se ci sono molti libri che tentano di spiegarlo.
In un freddo pomeriggio di inverno andai a trovare il Maestro Taiten Guareschi, presso il tempio di Fudenji vicino a Salsomaggiore, che frequento da anni. Il maestro stava lavorando presso la piccola casupola in mezzo al bosco dove c’è la falegnameria del monastero e mi invitò a prendere il tè insieme a lui. Nonostante il maestro sia un erudito, è anche un appassionato falegname con una manualità degna di nota. In quei giorni era intento a costruire un modellino in scala della Pagoda: un ambizioso progetto che da anni aleggia al monastero. Ci sedemmo insieme su due sgabelli di fronte al camino.
“Maestro un giorno quando avrà un po’ di tempo da dedicarmi, avrei bisogno che mi spiegasse alcuni concetti di estetica giapponese…perché riesco a capirli solo in parte, ma non ad afferarli appieno.”
“Se vuoi fare una chiacchierata volentieri, ma non c’è niente di difficile da capire. Vedi come è annerita la trave del camino? Raccomando sempre ai miei di non pulirla assolutamente: questo è un esempio di wabi sabi.”
“Cioè quello che noi restauratori chiamiamo patina?”
“Esatto, ne è un perfetto esempio, non c’è niente di difficile.”
Sabi può essere etimologicamente tradotto come “fiorire del tempo”, freddo, gelido, scarno ma bello. La ruggine è un esempio disabi, cioè la patina che crea il tempo. Come scrive il sacerdote-poeta Ton’a(1289-1372): “Solo quando la fascia di seta si è logorata in cima e in fondo il rotolo sembra bello.”
Wabi deriva invece dal verbo wabu, svanire, indebolire. A questo termine sono associati la bellezza rustica, semplice, ma anche il silenzio e la solitudine.
Suzuki Daisets, divulgatore dei principi Zen, definì wabi come “un attivo apprezzamento estetico della povertà”, e portava come esempi: “Essere soddisfatti di una piccola capanna (…), di un piatto di verdura raccolta nei campi vicini, e forse di stare ad ascoltare il picchiettio di una leggera pioggia di primavera.”
La chanoyu (cerimonia del tè) riformata da Rikyū, fu chiamata wabicha proprio perché verteva sulla povertà che aveva insita, secondo il maestro, una propria eleganza. La visione estetica del mondo secondo il principio wabi-sabi, significa “bellezza imperfetta, impermanente e incompleta”, come spiega Leonard Koren, architetto, esperto di estetica e scrittore statunitense.
Il Giappone è un paese che poco ha potuto fare per controllare la natura: estati calde e umide, inverni freddi e secchi, terremoti, alluvioni, eruzioni, maremoti… Per forza di cose i giapponesi non potevano avere fiducia nella natura ma, dall’osservazione di essa, hanno tratto tre importanti insegnamenti che sono uguali ai valori spirituali del wabi sabi.
Primo fra tutti è che tutte le cose sono temporanee, tutto si consuma e svanisce. Secondariamente tutto è imperfetto, se osserviamo qualsiasi cosa da vicino, ne noteremo i difetti. Terzo: tutto è incompiuto, persino l’Universo, tutto è in un perenne stato di divenire e dissolvimento. “Più le cose si avvicinano all’inesistenza, più si fanno delicate ed evocative. Di conseguenza, per sperimentare il wabi-sabi bisogna rallentare il ritmo, essere pazienti, guardare molto da vicino.” Leonard Koren.