Il National Craft Museum si trova a Kanzawa ed è la sezione di arti applicate del MOMAT di Tokyo.

KIN FOTOGRAFIA E KINTSUGI
Kin mostra di kintsugi su fotografia
Testo di Rachele Gatti, content creator per Giapponemilano.
Giovedì 20 maggio è stata inaugurata presso la galleria Expowall, la mostra KIN 金 (oro), di Anita Cerrato e Carola Guaineri, dedicata al kintsugi su fotografia.
Il kintsugi è l’antica arte giapponese di riparare con l’oro e solitamente si applica su oggetti di ceramica. Anita, che forse già conoscete grazie al suo progetto Kintsu Handmade, è una grande esperta della tecnica originale, ma non ha lasciato che questa la imbrigliasse. Da anni, infatti, ha iniziato a sperimentare il kintsugi su fotografia, insieme alla fotografa Carola Guaineri, che, nella sua camera oscura, sviluppa i suoi lavori in una continua ricerca stilistica.
Il kintsugi su fotografia ricorre alla stessa tecnica che si usa sulla ceramica; le foto vengono strappate e riunite con lacca urushi e oro zecchino. Non è semplice come sembra, però; la grossa difficoltà è che le carte che si usano per la stampa, baritata e politenata, sono delicatissime e temono l’umidità, mentre la lacca urushi per polimerizzare ha bisogno del cosiddetto “muro”, una camera rivestita di legno dove ci siano almeno 20° e il 65% di umidità relativa. Ciò nonostante, Anita e Carola sono riuscite a ottenere ottimi risultati.
Ecco, dunque, che le due artiste hanno deciso di esporre il frutto di tre anni di lavoro, inaugurando una mostra dedicata proprio a questa particolare applicazione del Kintsugi.
L’unione di due tecniche
Ero molto curiosa di vedere questa mostra di persona e devo dire che è stato un bel modo di riscoprire le due tecniche, quella fotografica e quella del kintsugi, in una veste diversa dal solito e molto particolare.
Lo spazio di Galleria Expowall è compatto, ma ben gestito, con le 14 fotografie esposte su tutte le pareti della stanza, quasi a formare un racconto circolare.
Le immagini scelte rappresentano diversi soggetti; si parte dal mare e si arriva a un asinello, passando per la famiglia della fotografa, panchine, binari dei treni, manifestazioni e altro ancora. Le foto selezionate, infatti, sono accomunate dall’obiettivo di lanciare un messaggio di speranza e ricostruzione, a partire da un ragionamento sui bisogni fondamentalidell’uomo.
Mai come in questo difficile periodo di quarantene e distacco, non solo dagli affetti, ma anche dalle proprie abitudini e priorità, è emersa con forza l’importanza di determinati bisogni umani. Bisogni che spesso trascuriamo, ma che ci appartengono profondamente. Quelle piccole cose, gesti o abitudini che spesso si danno per scontate, hanno dato prova di essere in realtà qualcosa di fondamentale per la nostra vita. Quei giri senza meta per la città o la campagna, quelle partite a carte con gli amici al bar, le manifestazioni svolte senza restrizioni…Adesso che iniziamo a vedere uno spiraglio verso la fine della pandemia, potremo pian piano recuperare tutto questo e si rende quindi necessario un lavoro di ricomposizione affinché tali bisogni possano nuovamente emergere in tutto il loro valore, prezioso quanto l’oro.
I testi poetici
Le foto sono poi supportate da testi poetici realizzati in collaborazione con Luigi Guaineri, fratello di Carola, che, grazie anche al suo background teatrale, ha saputo trovare le giuste parole per accompagnare le immagini, arricchendole di ulteriori significati e, soprattutto, ulteriori domande. Sono tanti, infatti, i punti di domanda che si scorgono nei testi e a cui non sempre si dà una chiara risposta, perché la ricostruzione e il bisogno sono qualcosa che ognuno di noi percepisce e interpreta a suo modo. Molto emblematica in questo senso anche l’immagine scelta come chiusura del giro, quella di un ciuco, che, a differenza delle altre, non viene accompagnata da un testo, ma solo da un punto di domanda. Per questa foto, forse, le cose da scrivere sarebbero state troppe? Il ciuco, forse, guardando il resto della mostra e degli esseri umani che vengono a visitarla, si pone delle domande? Che sia proprio lui il silente narratore di questo racconto?
Al di là dell’ovviamente splendido risultato estetico, il lavoro di Anita e Carola stimola riflessioni, emoziona e fa conoscere un modo nuovo di interpretare l’arte e, soprattutto l’artigianalità. A mio avviso, infatti, il lavoro svolto per arrivare al risultato, in questo caso, vale almeno quanto il risultato stesso. Aggiunge un ulteriore strato di significato al prodotto finito. Senza nulla togliere alla bellezza incontestabile dell’oro sulle fotografie in bianco e nero, infatti, mi sono soffermata anche a pensare all’importanza dei gesti che hanno condotto qui le artiste.
Unire tre menti
Innanzitutto, la sfida di mettere insieme 3 menti, l’importanza di superare la barriera della differenza (e della distanza) per poter comunque lavorare insieme. Ma, ancor di più, la necessità di aprirsi e congiungersi alle idee dell’altro per arrivare a qualcosa di unico.
Poi l’atto dello strappo, perché, come dicevo, la tecnica kintsugi utilizzata è quella originale, per cui le foto sono state rigorosamente strappate per essere ricongiunte. Ogni foto sviluppata in camera oscura è unica, non verrà perfettamente identica alla precedente. Ma alle volte una rottura è necessaria per poter rimettere insieme i pezzi ed arrivare a qualcosa di ancora più unico.
Lavorare con la carta fotografica, poi, significa che, per quanto calcolato, lo strappo non segue mai precisamente la direzione pensata ed ecco anche che il caso e l’imprevisto entrano a far parte della forma finale. Proprio come succede nella vita.
E infine il tempo, l’artigianalità, la dedizione e l’impegno necessari per arrivare alla mostra. Come immaginerete, infatti, le foto che vedete non sono certo le prime che sono state realizzate. C’è voluto un paziente lavoro di prove e rifacimenti (considerate che la lavorazione di ciascuna foto prende almeno una settimana). Proprio come per le rotture della nostra vita, infatti, per rimettere insieme i nostri pezzi, bisogna impegnarsi tanto, non darsi per vinti e lavorare sodo su noi stessi.
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